Le proteste in Bangladesh non chiedono “solo” di cambiare il sistema delle quote
Le proteste che da inizio luglio di quest’anno hanno infiammato il Bangladesh si sono rapidamente trasformate in un movimento più ampio e complesso: una richiesta dal basso di cambiamento sistemico.
Dal 18 luglio internet e telefoni sono fuori servizio in tutto il Paese mentre due giorni dopo il governo ha imposto il coprifuoco nazionale in seguito a oltre una settimana di scontri violenti e contestazioni contro il sistema delle quote che regola l’accesso alle assunzioni nella Pubblica amministrazione. Le proteste, che coinvolgevano inizialmente solo studenti universitari, hanno messo a ferro e fuoco la capitale Dhaka e altre città, dove il governo ha schierato l’esercito e ha vietato le manifestazioni: diversi edifici e veicoli sono stati dati alle fiamme durante gli scontri.
Le contestazioni sono cominciate i primi di luglio ma si sono intensificate poco dopo, quando gli studenti sono stati attaccati con mazze e bastoni dagli attivisti della Bangladesh Chhatra League, l’ala studentesca che sostiene il partito della prima ministra Sheikh Hasina, l’Awami League. Dopo che i manifestanti si sono rifiutati di vacare i campus, il 17 luglio il governo ha ordinato la chiusura delle università, epicentro del movimento contro le quote. Poi, il giorno dopo, la situazione, già molto tesa, è esplosa in violenza: migliaia di studenti si sono scontrati con la polizia che ha sparato lacrimogeni e proiettili di gomma sui manifestanti e disperso la folla. È di 115 morti, 850 arrestati e migliaia di feriti il bilancio di questi giorni di violenza.
Tutto è iniziato dopo che l’Alta Corte ha ordinato il ripristino del sistema delle quote e in particolare quella del 30% riservata ai discendenti dei veterani della guerra di indipendenza del 1971. Il sistema delle quote è in vigore dal 1972 ed era stato abolito da Hasina nel 2018 proprio a seguito delle massicce proteste studentesche, prima che la Corte lo ripristinasse a inizio giugno scorso. Secondo i manifestanti i posti di lavoro nella Pubblica amministrazione riservati ai discendenti dei veterani avvantaggiano un piccolo gruppo di persone vicine all’Awami League, che ha guidato il movimento per l’indipendenza. La premier Sheikh Hasina è figlia del leader nazionalista Sheikh Mujibur Rahman, il “padre della nazione”, ed è al potere in Bangladesh da un totale di oltre vent’anni.
Il sistema delle quote per le assunzioni statali prevede che il 56% dei posti disponibili sia riservato a determinate categorie di persone: il 10% alle donne, il 10% a chi proviene da zone economicamente meno sviluppate, il 5% alle comunità indigene, l’1% alle persone con disabilità e il 30% ai parenti dei caduti nella guerra di indipendenza dal Pakistan. Ed è proprio il ritorno delle quote per quest’ultima categoria ad aver incendiato la protesta, partita dalle università e allargatasi a macchia d’olio in tutto il Paese in un contesto in cui la disoccupazione è dilagante con almeno il 40% dei giovani -che rappresentano quasi un quinto dei 170 milioni di abitanti del Bangladesh- che non lavora né frequenta l’università.
“Il movimento per la riforma delle quote si è rivelato una scintilla che si è diffusa come un incendio, trasformandosi in una rivolta popolare che non ha nulla a che fare con le quote -spiega Ali Riaz, professore di Scienze politiche all’Università statale dell’Illinois e presidente dell’American institute of Bangladesh studies-. Il malcontento cova da tempo a causa della situazione economica. Negli anni il governo ha sostenuto che l’economia del Bangladesh stava andando bene (con una crescita media del 6% dal 2009, ndr) ma i frutti di questa crescita non sono arrivati a un gran numero di persone: l’aumento dei prezzi e del costo della vita, la corruzione che diventava endemica, persone vicine al regime che si arricchivano mentre la gente comune lottava per procurarsi il pane”.
Le proteste hanno inoltre riaperto vecchie e delicate linee di frattura nella società tra chi ha combattuto per l’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan nel 1971 e chi era accusato di collaborare con Islamabad. Indicativo è il fatto che Hasina abbia bollato i manifestanti come “razakar”, un termine per descrivere i collaboratori all’epoca dell’indipendenza: un commento che non ha fatto altro che esacerbare la tensione e le manifestazioni contro il suo governo, visto come corrotto e autoritario. I video che stanno circolando online mostrano una Dhaka (ma anche altre città) messa a ferro e fuoco e una repressione violenta e indiscriminata da parte delle forze di sicurezza: la violenza delle manifestazioni riguarda 47 dei 64 distretti del Bangladesh.
Anche se il governo ha imposto un blackout totale delle telecomunicazioni nel tentativo di sedare la protesta e nascondere le atrocità di massa, le proteste hanno assunto nuove forme, non ultimi attacchi hacker. Sul sito dell’ufficio di Hasina è comparso il messaggio “Stop all’uccisione degli studenti” e “Non è più una protesta, è una guerra”. Organizzazioni internazionali per i diritti umani, che da anni denunciano le violenze della polizia bangladese, hanno criticato la sospensione dei servizi di base e l’azione violenta delle forze di sicurezza. Giovedì 18 luglio il governo si era detto disposto a intraprendere colloqui con i manifestanti, che però hanno rifiutato l’offerta. Abu Sayeed, uno studente dell’università di Rangpur, la prima vittima della violenza della polizia, è diventato il simbolo di questa protesta. L’immagine di Sayeed che affronta la polizia e viene ammazzato è diventata l’emblema delle manifestazioni in corso.
“L’indignazione del pubblico e degli studenti ha raggiunto il punto di ebollizione, estendendosi ben oltre la richiesta iniziale di una riforma delle quote –ha scritto il giornalista bangladese Faisal Mahmud-. [I manifestanti] si sono mostrati sprezzanti, chiedendo molto di più della semplice riforma delle quote. Ora dicono di volere una riforma completa del sistema, il ripristino dei loro diritti di voto persi in tre elezioni consecutive e contestate e il loro riconoscimento come cittadini con pari diritti in una democrazia, non come semplici sudditi sotto un governo ‘autoritario’. Soprattutto, dicono di voler rivendicare la dignità che credono che il popolo del Bangladesh abbia collettivamente perso durante il mandato di Sheikh Hasina”.
Alle ultime elezioni tenutesi lo scorso gennaio e boicottate dal principale partito di opposizione, il Bangladesh nationalist party (Bnp), Hasina ha centrato il quarto mandato consecutivo e il quinto in assoluto. “Il malcontento popolare è dovuto anche alla situazione politica. Negli ultimi dieci anni il governo è diventato un regime autocratico, a gennaio l’affluenza è stata bassissima e non è stata fornita alcuna opportunità di voto al popolo. Era già successo nel 2018 e nel 2014. Questa privazione dei diritti politici significa che le persone si sentono escluse dal processo politico e il potere si concentra sempre più nelle mani di una persona: Sheikh Hasina -spiega ancora il professor Riaz-. Le persone hanno capito che senza sfidare il suo regime il sistema non cambierà. La richiesta popolare è che questo sistema autocratico venga abolito, cosa che può succedere solo con le dimissioni di Hasina e la transizione verso un sistema democratico”.
Intanto la Corte suprema ha ridimensionato il 21 luglio il controverso sistema delle quote, ordinando che la quota per i discendenti dei veterani fosse ridotta al 5%, con il 93% dei posti di lavoro da assegnare in base al merito. Il restante 2% sarà riservato ai membri delle minoranze etniche, alle persone transgender e disabili. I gruppi studenteschi hanno accolto con favore la decisione della Corte, ma hanno deciso di proseguire la protesta fino a quando tutte le loro richieste non saranno soddisfatte, compreso il rilascio dei manifestanti arrestati e le dimissioni dei funzionari responsabili delle violenze. “Temo che non sia ancora finita -conclude Raiz- Anche quando il coprifuoco verrà revocato e i militari non saranno più nelle strade, questo movimento potrebbe continuare perché se fallisce, il governo diventerà ancora più autocratico”.
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